22 maggio 2009

Italofoni discriminati

Quando il 7.5.2009 ho letto sul CdT la notizia col titolo tranquillizzante «Nell’amministrazione lingue nazionali o.k.» ho sperato che qualcuno o qualche istituzione reagisse. La dichiarazione del Consiglio federale secondo cui gli obiettivi di un’equa rappresentanza linguistica sono «ampiamente raggiunti» andava contestata alla radice perché tali obiettivi sono minimalisti e poggiano su un presupposto contestabile.
L’equa rappresentanza linguistica per il Consiglio federale si riferisce ai soli cittadini svizzeri, mentre dovrebbe riferirsi alla popolazione residente. L’amministrazione non è infatti un organo politico elettivo, ma appunto solo amministrativo. Ai fini di una «equa ripartizione» dei suoi membri non è tanto importante la cittadinanza quanto l’appartenenza a una delle quattro comunità linguistiche nazionali (compresi gli stranieri). Se così fosse, l’ottimismo dell’Ufficio federale del personale (e del Governo) secondo cui gli italofoni, con il 6%, superano di ben l’1,7% la quota fissata, non avrebbe ragion d’essere. La quota del 6% è infatti ancora al di sotto di quella della popolazione residente italofona (6,5%, nel 2000).
Ancor meno ragione di gioire per il Consiglio federale dovrebbe essere la costatazione che, esaminata nei dettagli la ripartizione degli italofoni ai vari livelli di responsabilità e di salario, «i latini sono discriminati», come ha dimostrato anche un recente studio (cfr. CdT del 16.5.2009).
Mi auguro che i parlamentari italofoni, ticinesi in primis, ne tengano conto per incalzare continuamente il governo anzitutto per modificare gli obiettivi e poi per farli rispettare non solo quantitativamente, ma anche qualitativamente. Già le istruzioni federali del 2003, ancora attuali, prescrivono infatti che i Dipartimenti federali assicurino un’equa rappresentanza delle comunità linguistiche «a ogni livello gerarchico». E’ evidente che sotto questo aspetto gli italofoni nell’amministrazione federale non sono ben rappresentati.
Giovanni Longu
(Corriere del Ticino del 22.05.2009)

20 maggio 2009

Quale futuro per il CGIE?

Abbiamo letto nella stampa scritta e in Internet diversi resoconti dei lavori della recente assemblea plenaria del CGIE (Consiglio generale degli italiani all’estero). Ciascun lettore si sarà fatta la sua idea. Anch’io ne ho una.
Dai resoconti, l’aspetto più grave che emerge è il porsi del CGIE in rotta di collisione col governo e con la maggioranza parlamentare. Apparentemente questo atteggiamento sembra motivato dal taglio alle spese per gli italiani all’estero e agli organismi di rappresentanza. In realtà si tratta di una vera e propria opposizione politica (basterebbe vedere la composizione dell’attuale CGIE), che nulla ha a che fare con la natura stessa del Consiglio, che è appunto essenzialmente quella di consigliare, esprimere pareri («su richiesta del Governo e dei Presidenti dei due rami del Parlamento»), formulare proposte e raccomandazioni.
La sicurezza (o sicumera?) del CGIE nell’affrontare i problemi e nel confronto col Governo e col Parlamento gli proviene da una sopravvalutazione del suo ruolo, che fa dire al senatore del Pd Randazzo (che raccoglieva verosimilmente un’opinione molto diffusa all’interno dell’organismo in questione) che il CGIE è «un organo dello Stato e non un’associazione». Certo, il CGIE è istituito per legge; ma di qui a considerarlo «un organo dello Stato» ce ne corre.
Questo atteggiamento autoreferenziale induce il sen. Randazzo (ma non solo lui) a considerare con disprezzo non solo le iniziative del governo, ma «la volontà politica di questo Governo», «che non solo ignora gli italiani all’estero, ma cerca di isolarli e di delegittimarne gli organi di rappresentanza».
Il CGIE è ancora un organo di rappresentanza?
In realtà, il vero problema di cui molti come Randazzo non si rendono ben conto non è tanto la delegittimazione del CGIE da parte del Governo, ma è proprio il CGIE, che dopo l’introduzione dell’elezione diretta di 18 parlamentari «esteri», ha di fatto perso la sua legittimazione. E’ rimasto organo di rappresentanza solo sulla carta, ma non nella realtà. Del resto, osservando l’orientamento politico dei membri del CGIE (nella stragrande maggioranza collocabili tra i ranghi dell’attuale opposizione) e i parlamentari eletti, risulta evidente che i primi (non eletti direttamente) non godono della stessa rappresentatività dei secondi.
Il Governo prende solo atto, pur senza molto coraggio, che di due organismi di rappresentanza politica uno è di troppo, ossia inutile, anche sotto il profilo della rappresentatività. O si rinuncia all’elezione dei 18 parlamentari «esteri» oppure si rinuncia al CGIE.
In altre occasioni avevo intravisto, in alternativa, di mantenere il CGIE, ridimensionato e spoliticizzato, unicamente come un organismo tecnico di consulenza, costituito di esperti e non più di rappresentanti politici, com’è attualmente.
La continua autodifesa e autogiustificazione del CGIE potrebbe far pensare che veramente le motivazioni per un suo mantenimento scarseggino. Tanto più che gli italiani all’estero sono «coperti» da un buon numero di forme di rappresentanza legittime e utili come le ambasciate, i consolati, le camere di commercio, le associazioni, i Comites, ecc. per non parlare degli unici rappresentanti «esteri» diretti degli italiani residenti all’estero, ossia i 18 parlamentari eletti nella Circoscrizione Estero.
L’utilità di un’altra rappresentanza, il CGIE nell’attuale forma e composizione, può essere legittimamente messa in dubbio, anche alla luce di quel che costa (perché costa e come!) e produce (poco).
Associazionismo
Mi riferisco, giusto per fare un esempio, a come ha trattato nella recente assemblea generale il tema dell’associazionismo, che è un cavallo di battaglia del CGE, se non altro perché ne è l’espressione politica.
Anzitutto una considerazione generale. E’ vero, la storia dell’immigrazione italiana in tutti i continenti ha avuto nell’associazionismo uno degli elementi costitutivi e vitali più importanti per il suo sviluppo e la sua affermazione. Il CGIE, tuttavia, dovrebbe rendersi conto che l’associazionismo più recente è completamente diverso da quello tradizionale per il semplice fatto che l’emigrazione italiana di massa è cessata da decenni.
Non mi pare che i documenti prodotti dal CGIE sull’associazionismo tengano conto dell’attuale situazione, sebbene uno di essi porti il titolo: «Associazioni italiane nel mondo: realtà in evoluzione». In altro documento che dovrebbe contenere «analisi, considerazioni e proposte», è difficile (almeno dai resoconti giornalistici) capire dove stanno le analisi e soprattutto le proposte o forse non ve ne sono proprio. Molte frasi sono semplici giri di parole povere di contenuto e persino contraddittorie.
Da una parte si dice che «questo associazionismo non chiede soldi, ma solo un riconoscimento istituzionale», per poi dire in altra parte che esso «va aiutato anche finanziariamente». Si vorrebbe, ad esempio, che l’ente pubblico sostenga «la nascita di associazioni» (soprattutto di giovani) e promuova (senza soldi?) l’associazionismo esistente perché in questo momento è in profonda crisi.
La conclusione non è da meno: «la mancanza di una lettura aperta ed evolutiva, l'insufficienza di azioni lungimiranti che sostengano il processo di rinnovamento interno al mondo associazionistico e l'assenza di valide misure finalizzate alla sua valorizzazione e a nuove forme di attrazione verso l'Italia delle sue migliori energie, questa "storica risorsa" andrà progressivamente e forse irrimediabilmente perduta per il nostro Paese». E questa sarebbe una conclusione?
Orbene, che l’ente pubblico debba intervenire per sostenere (non per finanziare) iniziative ben precise e particolarmente utili mi sembra giusto, ma non dovrebbe spingersi oltre per non snaturare il carattere spontaneo e solidaristico dell’associazionismo. Le associazioni nascono dalla base, non dall’alto, ed è bene che muovano almeno i primi passi basandosi sul volontariato e sull’autofinanziamento. Il ruolo dello Stato dev’essere solo sussidiario.
A questo punto, la mia opinione sul CGIE dovrebbe apparire chiara. E la vostra?
Giovanni Longu
Berna 18.5.2009
L'ECO del 20.5.2009
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