18 febbraio 2009

Rapporti italo-svizzeri in «salsa ticinese»

Dopo la votazione dell’8 febbraio scorso, gran parte delle analisi politiche hanno messo in rilievo la maturità e l’intelligenza del popolo svizzero, che non si è lasciato influenzare dalle voci che preconizzavano un aggravarsi della situazione occupazionale in seguito alla crisi internazionale.
A votare controcorrente sono rimasti solo quattro Cantoni: Svitto (56,6%), Appenzello interno (53,4%), Glarona (51%) e Ticino (65,8%). Il loro voto negativo era prevedibile, ma dal Ticino non ci si attendeva un no così netto. Per questo le analisi del voto antieuropeo si sono concentrate soprattutto sul no ticinese. Se ritorno sull’argomento (v. L’ECO dell’11.2.2009) è per chiarire ulteriormente alcuni aspetti della posizione singolare del Ticino.
Il giorno stesso delle votazioni, appena noti i risultati, mi ha sorpreso la grande convergenza di opinioni trasversali a tutti i partiti, che individuavano nell’inosservanza della «reciprocità» dei Bilaterali da parte italiana una delle principali ragioni del no ticinese. Continuo infatti a chiedermi quanti ticinesi fossero al corrente di questa inadempienza italiana e quanti ticinesi siano stati discriminati finora nel tentativo di esercitare un lavoro in Italia. E’ sicuramente vero che alcune ditte svizzere hanno incontrato difficoltà a partecipare alle gare d’appalto, ma quante siano nessuno lo sa. Quanto ha veramente pesato questa incertezza sull’esito del voto ticinese?
Si è detto che il no del Ticino alla libera circolazione delle persone dell’Unione Europa provenienti anche da Bulgaria e Romania esprimesse una grande paura di essere ancor più «invasi» da stranieri. Ma quanti sono, finora, i ticinesi che hanno perso il posto di lavoro a causa degli stranieri? Si tratta di un’ipotesi realistica o di una paura strumentale per altri fini, soprattutto di politica interna ticinese? Se all’elettorato ticinese si fosse chiarito dove vengono impiegati gli stranieri, soprattutto i frontalieri, forse l’atteggiamento di voto sarebbe stato diverso. E’ innegabile infatti che la manodopera meno qualificata occupa principalmente posti non più ambiti dai ticinesi e i superqualificati o i liberi professionisti vengono in Ticino solo se trovano la «domanda» corrispondente. Il discorso vale, a maggior ragione, quando si tratta di imprese italiane che operano sul territorio cantonale.
Un altro tentativo di spiegare il no ticinese fa riferimento alla paura della pressione sui salari da parte della concorrenza straniera-italiana. Anche questo argomento mi sembra molto fragile. La pressione sui salari, come ho già avuto occasione di dire, non la fanno i salariati ma il mercato del lavoro. In un regime di libera concorrenza – e la Svizzera ne è una strenua difensora – non c’è spazio per il protezionismo. Incolpare i lavoratori (italiani) se percepiscono salari che non rispettano le condizioni contrattuali è semplicemente ingiusto, semmai sono da incolpare quei datori di lavoro che non le rispettano e propongono e impongono ai lavoratori salari più bassi di quelli usuali. Se si dovesse considerare «sleale» la concorrenza italiana, come bisognerebbe qualificare chi se ne serve per ottenere grandi profitti?
Mi sembra condivisibile la lettura del no ticinese come un segnale lanciato a Berna, soprattutto alla luce di quanto hanno dichiarato mi pare tutti i deputati e senatori ticinesi all’indomani del voto e soprattutto i rappresentanti della Lega, i principali sostenitori del no. E’ sicuramente un segnale forte, ma non credo che Berna sia in grado di trovare (da sola) gli antidoti necessari a sanare il disagio del Cantone italofono. Il Consiglio federale potrà forse intervenire (se dispone della documentazione giusta!) per garantire da parte dell’Italia la reale reciprocità degli Accordi bilaterali, ma non potrà certo innalzare lungo la frontiera italo-svizzera barriere tali da impedire la libera circolazione delle persone.
Oltretutto, nelle controversie internazionali bisogna andare cauti. Per questa ragione, alla richiesta del Cantone Ticino di rinegoziare con l’Italia la questione delle imposte prelevate ai frontalieri, il Consiglio federale ha già fatto sapere che riaprire le trattative potrebbe portare a un peggioramento della situazione. Talvolta si dimentica che certi problemi si risolvono meglio con la trattativa e la collaborazione che con i contenziosi.
Il Ticino deve cercare di risolvere i propri problemi contando soprattutto sulle proprie forze. Il no all’estensione della libera circolazione a Romania e Bulgaria non era probabilmente solo un segnale indirizzato a Berna, «colpevole» di essere troppo lontana e disattenta al lembo meridionale della Svizzera, ma anche rivolto a Bellinzona, al governo ticinese, «incapace» di farsi portavoce del disagio della popolazione. Piove, o minaccia di piovere? Governo…!
Credo infine che i ticinesi non debbano guardare gli italiani e i lombardi solo come concorrenti, ma anche come partner. Il mercato lombardo è vitale per il Ticino, a tal punto che la Lombardia potrebbe sicuramente fare a meno del Ticino, ma non sarebbe possibile il contrario. Non bisognerebbe inoltre dimenticare che all’Italia e alla Lombardia il Ticino deve molto della sua prosperità raggiunta in pochi decenni.
Per concludere vorrei citare l’ex consigliere nazionale Adriano Cavadini, che in un commento articolato alla recente votazione ha scritto riguardo ai rapporti tra il Ticino e l’Italia:
«Si è dimenticato troppo facilmente che il benessere economico, di cui beneficia tuttora il nostro Cantone, proviene in gran parte dalla vicinanza con l’Italia. La nostra industria e numerose aziende dell’edilizia e di servizio, ad esempio nella sanità (ospedali, case per anziani), non sarebbero in grado di produrre e funzionare senza la preziosa collaborazione dei lavoratori italiani residenti e dei moltissimi frontalieri. La piazza finanziaria ticinese deve gran parte del suo sviluppo alla vicinanza dell’Italia. Molti commerci vivono grazie agli acquisti della clientela italiana. Negli ultimi trent’anni infine decine di imprenditori italiani si sono stabiliti nel Ticino, aprendovi importanti iniziative nell’industria, nei servizi e nel commercio, spesso facendo del nostro cantone una importante sede strategica per le loro attività a livello internazionale. Diversamente da loro si comportarono dirigenti d’oltre Gottardo che sovente, quando le condizioni cambiavano, decisero di ridurre e chiudere le filiali presenti nel Ticino. Per una valutazione oggettiva dei nostri rapporti con l’Italia questi essenziali elementi positivi non possono essere semplicemente ignorati».
Giovanni Longu
(L’ECO 18.2.2009)