01 dicembre 2008

Integrazione e matrimoni misti

Il tema dell’integrazione, in Svizzera come in Italia, è di grande attualità anzitutto perché è cresciuta in questi ultimi anni la sensibilità sociale per il fenomeno migratorio e la comprensione delle sue cause e delle sue finalità. Al tempo stesso si vogliono evitare per quanto possibile nei nuovi arrivati sentimenti di frustrazione e d’isolamento dovuti alle inevitabili difficoltà del primo impatto, spesso traumatico, in un Paese nuovo. Non da ultimo, facendo tesoro di esperienze negative del passato, si vorrebbe non dare adito a sentimenti xenofobi, che purtroppo sono sempre latenti, anche nelle migliori società.
All’integrazione sono dedicati ormai centinaia di studi e ricerche, per capirne la dinamica naturale più che per escogitare ricette. Anche recentemente a Roma è stato organizzato al Senato un convegno, in cui è stata presentata fra l’altro l’esperienza svizzera. Per quanto si legga, si ascolti e si ricerchi, non sarà tuttavia mai possibile capire fino in fondo i meccanismi che producono l’integrazione e quindi arrivare a definirla.
In questa materia sono pertanto legittime molteplici opinioni. Quando si parla d’integrazione, bisognerebbe tuttavia cercare di uscire dal vago e dal troppo teorico. L’integrazione è infatti qualcosa di molto reale, visibile e persino «misurabile», naturalmente tenendo presente che non si tratta di un fenomeno fisico, ma di un modo di relazionarsi con un Paese e soprattutto con i suoi abitanti. Non si tratta quindi solo in uno «stato d’animo», ma di comportamenti.
Nel breve spazio disponibile è impossibile affrontare da vicino questo problema, ma vorrei accennare solo a un indicatore misurabile dell’integrazione, che mi pare alquanto trascurato da molti studi e convegni, quello dei matrimoni misti. Detto semplicemente, in una comunità emigrata, quanto più alta è la frequenza dei matrimoni misti tanto maggiore è l’integrazione.
I matrimoni misti sono un indice d’integrazione perché essi suppongono in generale un buon livello di comunicazione con la popolazione locale e quindi una conoscenza del Paese ospite, delle sue istituzioni e delle sue consuetudini.
Osservando la storia dell’emigrazione italiana in Svizzera è facile trovare una sorta di conferma di quanto appena detto. E’ noto che fino a pochi decenni orsono gli italiani residenti stabilmente non s’integravano, se non in misura molto ridotta, tanto è vero che erano in pochi a chiedere la naturalizzazione e relativamente pochi erano i matrimoni misti. Le ragioni erano molteplici, ma una era sicuramente la scarsa conoscenza della lingua locale (almeno nella Svizzera tedesca) e quindi la mancanza di comunicazione.
Va aggiunto che fino agli anni Settanta, né le istituzioni ufficiali né le grandi associazioni storiche facevano alcunché per favorire l’integrazione. In uno studio dei primi anni Settanta si trova questa testimonianza: «Non esistono praticamente rapporti tra italiani e svizzeri, se si escludono quelli puramente formali derivanti dai contatti quotidiani sui luoghi di lavoro, e dal vivere nella stessa città. Italiani e svizzeri, pur lavorando nelle medesime fabbriche, abitando talvolta fianco a fianco, usando gli stessi servizi e infrastrutture, si ignorano reciprocamente, svolgendo vite parallele, ma completamente separate. (…) Le discriminazioni non avvengono con limitazioni e prescrizioni, ma piuttosto in modo automatico, per cui alcuni quartieri, locali, abitazioni diventano “per italiani” e non vengono frequentati dagli svizzeri e viceversa. Da ambo le parti si riscontra la tendenza a mantenere le proprie caratteristiche ed abitudini, senza sentire l’esigenza di un interscambio ed anzi l’un gruppo etnico guardando con un certo senso di fastidio l’altro. Tale situazione è accettata come un dato di fatto dalle associazioni che non pensano di avere la forza sufficiente per mutarla, essendo essa troppo generale e diffusa e affondando le proprie radici in un costume generale e ormai consolidato» (De Marchi, 1972).
Dagli anni Settanta, quando sia la politica svizzera che quella italiana, insistono sulla necessità dell’integrazione soprattutto dei giovani della seconda generazione, cominciano a cadere molti pregiudizi e ostacoli, comincia la comunicazione e i progressi verso una effettiva integrazione in campo scolastico (quindi anche linguistico), sociale e professionale sono sempre maggiori. Aumentano notevolmente anche le naturalizzazioni e i matrimoni misti.
I cittadini italiani che chiedono la naturalizzazione svizzera sono relativamente pochi fino alla fine degli anni Sessanta, superando una sola volta, nel 1969 la soglia di 2000. Dagli anni Settanta in poi la tendenza è sempre all’aumento, tenendo ovviamente presente che la popolazione con la sola cittadinanza italiana diminuisce costantemente. Nel 1977 si è toccato per la prima volta il record di 5434 naturalizzazioni, che sarà poi superato nel 2000 con 6652 naturalizzazioni.
Per quanto riguarda i matrimoni misti (italiano/a-svizzera/o), le statistiche parlano chiaro. Se fino agli anni Sessanta i matrimoni tra svizzeri e italiani sono inferiori a quelli tra coniugi entrambi italiani, le proporzioni cominciano a invertirsi già dal 1970 (51,3% contro il 48,7%). Nel 1980 tali proporzioni diventeranno rispettivamente del 66,5% e 33,5%, nel 1990 del 67,2% e 32,8%, nel 2000: 76% e 24%, nel 2007: 83% e 17%.
Questi dati si commentano da sé. Occorre tuttavia avvertire che si riferiscono a italiani con la sola cittadinanza italiana. Se venissero inclusi nella statistica anche i doppi cittadini, le proporzioni sarebbero ancor più significative.
Se all’inizio del secolo scorso si parlava di una «questione degli italiani» (Italienerfrage) e di «inforestierimento» (intendendo soprattutto gli italiani) perché non erano affatto integrati, oggi gli italiani non pongono alcuna questione e il livello d’integrazione è quasi totale, a parte l’esercizio dei principali diritti politici. Una conquista ancora da realizzare, ma è solo questione di tempo.
Giovanni Longu
Berna 1.12.2008